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Greatti: «Tutti temevano il Cagliari dello Scudetto, eravamo i più forti» – ESCLUSIVA

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A tu per tu con Ricciotti Greatti, centrocampista del Cagliari dello Scudetto. A 50 anni dall’impresa, i racconti e le emozioni di un trionfo che supera il tempo

Ricciotti Greatti fa parte del nutrito gruppo dei “ragazzi del ’70” che dopo la conquista dello Scudetto hanno deciso di non lasciare mai più Cagliari. Friulano di nascita e Sardo d’adozione, il numero 10 della formazione entrata nella leggenda ricorda ancora con emozione le tappe che portarono all’impresa. In occasione del cinquantenario della conquista del tricolore lo abbiamo raggiunto in esclusiva per rivivere quei momenti attraverso la voce di uno dei protagonisti.

Riccio, dopo mezzo secolo il ricordo dello Scudetto è sempre vivo
«Peccato non poter festeggiare insieme ai tifosi, si stavano organizzando grandi cose e non vedevamo l’ora. Tanto entusiasmo dopo 50 anni certifica quanto Cagliari sia speciale, lo dico sempre anche ai giocatori di adesso. Allora eravamo consapevoli di aver compiuto un’impresa, ma il passare del tempo ci ha fatto rendere conto meglio di cosa abbiamo fatto».

Tu arrivi a Cagliari già nel 1963, da allora la squadra inizia a volare
«Quella squadra l’abbiamo costruita e vista crescere. Siamo arrivati io, Gigi Riva e Cappellaro poi piano piano si sono aggiunti giocatori di livello assoluto. Andrea Arrica è stato bravissimo con le sue intuizioni e con la capacità di andare a prendere calciatori che magari altrove non erano soddisfatti e qui invece hanno trovato la dimensione ideale. Io ero alla Reggiana in Serie B, a Cagliari invece ho centrato subito la promozione, poi il primo anno in A con un girone di ritorno favoloso e il sesto posto. Arrica allora ha costruito uno squadrone, pensate solo agli arrivi di Nenè e Domenghini».

Una squadra ricca di talento, eppure capace di prendere pochissimi gol
«Per subire così poco servono tante componenti, non ultimo un buon centrocampo. Gigi faceva tanti gol, noi tutti eravamo bravi a dare un equilibrio alla squadra. Non lo dico perché ne facevo parte, ma si giocava bene: c’erano piedi buoni come quelli di Cera, Nenè, poi Domenghini. Eravamo forti, Scopigno quasi ci teneva il profilo basso per farci rendere al meglio ma ci temevano anche nei grandi stadi».

Avete spezzato lo strapotere del Nord, una bella rivincita per la Sardegna
«La sensazione di essere trattati in modo diverso c’era inizialmente, ma poi man mano che crescevamo saliva anche la considerazione generale. Avevamo la forza di vincere, eravamo tutti all’apice delle nostre possibilità. Non ce n’era per nessuno, eravamo i più forti. Una combinazione incredibile, non mi vengono in mente altre squadre che abbiano fatto così tanto con un budget non da primissimo piano. Penso alla rosa fortissima che avevamo, in panchina c’era uno come Reginato che in porta ha stabilito record ancora validi».

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Arriviamo a Cagliari-Bari, 12 aprile 1970. Tu sei squalificato e devi accomodarti sugli spalti
«Pensa che a farmi squalificare fu un mio amico! L’ammonizione fatale mi arrivò da un arbitro che da ragazzo aveva fatto il collegio con me a Udine. Mi è toccato vivere la giornata dello Scudetto dalla tribuna, anche se nel caos del dopo gara Scopigno venne a prendermi per portarmi nello spogliatoio a festeggiare con gli altri. In un certo senso ho vissuto quei momenti gustandomeli in modo unico, perché in campo pensi solo a giocare e invece io ho potuto esultare insieme ai nostri tifosi».

Un legame forte, quello con la gente sarda. Hai scelto questa terra come casa
«Pur di non andare via da Cagliari ho smesso col calcio giocato. Sono rimasto qui, come tanti altri di allora, perché la Sardegna è la nostra patria. Nessuno ci potrà mai dare quel che ci ha dato questa terra, emozioni indelebili e gente che ci vuole tanto bene. È un affetto unico, non temo di dire che i Sardi ci hanno dato più di quello che noi abbiamo dato a loro».

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