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Gigi Piras: «Quel mio gol che salvò il Cagliari dal fallimento…» – ESCLUSIVA

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A tu per tu con Gigi Piras. Intervista all’ex attaccante, che visse le diverse fasi del Cagliari: dalla scia dello scudetto alla retrocessione in Serie C

Nel giorno de Sa die de sa Sardigna c’è anche un’altra ricorrenza degna di nota, per i sostenitori rossoblu. Quarantasei anni fa, il 28 aprile 1974, Gigi Piras debuttava in Serie A e segnava il primo di una lunga lista di reti in maglia rossoblu. Abbiamo ospitato l’ex attaccante selargino a Casa CagliariNews24, in diretta sulla nostra pagina Facebook, per una chiacchierata tra passato e presente.

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Oggi è 28 aprile: esattamente 46 anni fa il tuo esordio con gol in Serie A.
«E’ un ricordo lontano ma ce l’ho bene in mente, da lì partì la mia carriera col Cagliari. Era l’undicesima o dodicesima volta che mi portavano in panchina, ero un giovane promettente. Allora in panchina si potevano portare solo tre elementi e di solito in casa si usava portare una punta. Oltre a me, contro la Fiorentina c’erano Dessì e Copparoni. Si fece male Nenè, io non mi aspettavo di dover entrare anche. Chiappella mi disse di entrare e dare una mano sulla sinistra anche in fase difensiva, davanti giocavamo con Riva e Bobo Gori. Il gol: su un calcio d’angolo di Brugnera quattro andarono a saltare su Riva, dopo un rimpallo fui rapido a segnare di contro balzo. L’ho messa sopra la testa di Picchi De Sisti».

C’è la leggenda della lente a contatto…
«Sì, in quel periodo era difficile giocare con le lenti perchè c’erano solo quelle dure. Quel giorno persi una lente prima di segnare. Dopo la partita la cercai, ma non la trovai».

Fu la prima di una lunga serie di reti in una lunga esperienza in rossoblu.
«Ho dovuto, un anno dopo, insieme a Virdis raccogliere l’eredità del più grande attaccante italiano di tutti i tempi. Dal 1975 in poi ho quasi sempre giocato titolare. Ero un ragazzino di 20-21 anni a cui è passata l’eredità di quella maglia numero 11. Non solo Virdis: ho giocato calciatori come GattelliPoliUribe…Poi ho dovuto fare da chioccia. Insieme a Lamagni e Quagliozzi siamo stati gli unici superstiti di quella squadra che si piazzò al sesto posto. Ogni anno Delogu era obbligato a vendere i migliori per pagare gli stipendi dell’anno successivo».

Nel 1986/87 un Cagliari in difficoltà economica retrocesse in C, ma in Coppa Italia era un altra squadra. Anche grazie ad un tuo gol arrivò la semifinale contro il Napoli, che salvò economicamente il club.
«L’incasso della partita contro il Napoli fece in modo che il Cagliari, che aveva già pronte le carte per il fallimento, potesse pagare i debiti e salvare la società. In quell’anno tra l’altro c’era un’ottima squadra, c’era Montesano…Non avevo mai visto uno correre così, aveva dei numeri da fuoriclasse. In porta avevamo Sorrentino, poi Venturi in difesa: fior di giocatori. Anche BergamaschiPulgaBernardini…La squadra non era male, ma partire con la penalizzazione di -5 e con stipendi che non pagavano non era semplice. La squadra era sempre in agitazione. Ricordo all’intervallo di una partita con la Sampdoria eravamo sotto di due reti e Giagnoni se ne andò a casa…Nel secondo tempo facemmo due reti e pareggiammo 2-2. A fine partita la società voleva licenziare Giagnoni, noi lo difendemmo e concludemmo la serata tutti insieme a casa sua».

C’è mai stata la possibilità di lasciare Cagliari o hai scelto tu di rimanere a vita in Sardegna?
«Sì. Una volta Amarugi mi ha ceduto al Napoli. Gli ho detto che, anche per questioni familiari, non sarei andato. Potevo andare solo alla Samp, che mi aveva anche richiesto. Avevamo anche parlato dello stipendio, avrei guadagnato tre volte lo stipendio di Cagliari. Amarugi sparò oltre un miliardo per il cartellino e non se ne fece nulla e sono rimasto volentieri a Cagliari. Poi c’è stata la possibilità Genoa ma non ho accettato e sono rimasto cinque mesi senza giocare».

Qual è il tecnico che ti ha lasciato il miglior ricordo?
«Sia tecnici che calciatori li ho sempre giudicati come persone, oltre che sul lato calcistico. Come compagno ricordo sempre Brugnera, un maestro che veniva dallo scudetto: persona squisita e sempre disponibile. Di allenatori dico Mario Tiddia, è stato il miglior allenatore mai avuto. L’ho avuto dalle giovanili. E poi era sardo, questo ci aiutava a legare. Così come con Virdis e Valeri: quando dovevamo andare a battere un angolo per non farci capire parlavamo in sardo. Anche con Giagnoni parlavo in sardo».

Victorino è passato alla storia come uno dei peggiori attaccanti della storia del Cagliari, deludendo le attese.
«Secondo me non è neanche colpa sua. Sia lui che Uribe erano giocatori per squadre che dovevano vincere il campionato. Non erano abituati a dover tornare a difendere. In Italia non puoi fare l’attaccante e non difendere. E poi contro le grandi, in Italia, ti arrivano poche palle gol ed è difficile realizzarle. In Uruguay gli mettevano 15-20 palle in area: uno o due gol li faceva sempre».

Nel corso della lunga esperienza di Cagliari hai vissuto la scia dello scudetto e poi conosciuto gli anni bui.
«Sono arrivato al cagliari negli anni in cui erano finiti i soldi. Sia la SIR di Rovelli e la SARAS smisero di finanziare il club. Il Cagliari si finanziava con le uscite: Virdis alla Juventus pagava l’anno successivo, così come Corti, Casagrande, Marchetti, Bellini e così via».

Resta il rammarico di non aver visto sviluppato un progetto pluriennale. Si poteva costruire su quel Cagliari che arrivò sesto.
«Dopo la squadra dello scudetto è il piazzamento migliore della storia del Cagliari. Tra l’altro con una squadra neopromossa e composta da italiani. C’erano giovani promettenti e lo zoccolo duro formato da Niccolai Brugnera, Tomasini e Riva. Gli altri, Gori compreso, sono stati ceduti negli anni».

Veniamo al presente: come vedi la questione relativa alla ripresa della Serie A?
«Il calcio porta molti soldi, anche nelle casse del Governo. Se uno può andare a correre in un parco non vedo perchè i calciatori non possano fare altrettanto nei centri sportivi, che hanno tanti campi. Penso ad Asseminello per il Cagliari o Zingonia per l’Atalanta. Se il calcio non riprendesse ci sarebbe una brutta botta: anche le emittenti non penso che pagheranno l’ultima rata. I calciatori hanno rinunciato a qualche mensilità, ma per le parti in causa viene sempre difficile fare rinunce».

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