Abeijón: «A Cagliari sono diventato un vero giocatore e un uomo. È la mia vita»
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Abeijón: «A Cagliari sono diventato un vero giocatore e un uomo. Tornerei subito in rossoblù» – ESCLUSIVA

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L’ex centrocampista del Cagliari, Il Guerriero Nelson Abeijón si racconta in esclusiva ai microfoni di CagliariNews24

Sono passati quasi quindici anni da quando Nelson Abeijón ha lasciato la sua maglia rossoblù e il suo numero 18 ma Il Guerriero, così come è stato soprannominato dai tifosi del Cagliari, non ha mai dimenticato il popolo, la passione, la squadra che ha cambiato la sua vita, che gli ha fatto capire dopo anni il senso di appartenenza a qualcosa. L’ex centrocampista uruguaiano si è raccontato in esclusiva ai microfoni di CagliariNews24: un salto nel passato, il presente e un occhio a un futuro a tinte rossoblù.

A Cagliari è stato soprannominato “Il Guerriero”: anche ora che è diventato un allenatore mantiene lo stesso spirito?

«Sono diventato allenatore cinque anni fa. Ora, qui in Uruguay, non mi sto occupando di una prima squadra, alleno dei bambini. Cerco di far capire e di trasmettere tutto ciò che sentivo quando giocavo a calcio, tutti quei sogni che avevo da bambino prima di diventare un giocatore professionista. Il calcio, in questi anni, è cambiato molto: adesso si pensa più ai soldi che a difendere una maglietta. Certo i soldi ti permettono di vivere, di aiutare la famiglia ma non c’è niente di più bello di difendere la maglietta fino alla morte. 

Cosa le hanno insegnato gli anni al Cagliari?

«A Cagliari ho capito tutto: ho imparato a vivere, a conoscere la gente, a provare cosa significa portare quella maglietta. Ho iniziato a pensare con il cuore. Adesso che non gioco più, farei di tutto per tornare a giocare in quella che è diventata la mia squadra del cuore. Sono diventato più tifoso, guardo le partite, mi arrabbio, gioisco insieme a loro. Per me è un orgoglio che i miei figli siano sardi, ho voluto fortemente che nascessero a Cagliari».

Come ci si sente, dopo tanti anni, a essere ancora amato dai tifosi?

«Lo dico sempre ai miei amici: è incredibile come sia più voluto bene a Cagliari che nella mia nazione. Capisco anche il perché: ho giocato tanti anni sempre con la maglia rossoblù e io mi sento sardo. Ho conosciuto tanta gente, tutte persone umili: questa è la gente che mi ha fatto capire cosa è il Cagliari, cosa significa amare il Cagliari. Come ci sente a essere considerati degli idoli? Ricordo ancora il Conti Day, Daniele mi chiamò e mi chiese di partecipare. Ero emozionato, nervoso. Sono stato nominato dopo Andrea Cossu che ha dedicato tutta la sua vita al Cagliari e ho pensato “figurati se si ricordano di me, non sarà come nei miei sogni” e invece quando sono entrato in campo è stata un’emozione incredibile. La cosa più bella del calcio è il riconoscimento della gente: puoi essere un grande giocatore, puoi prendere tutti i soldi che vuoi però se vai per la strada e la gente non ti saluta, non ti riconosce, vuol dire che non hai fatto niente. Quando indossavo la maglia del Cagliari, soprattutto la 18, pensavo che la stava indossando il popolo intero. Mi sentivo in dovere di dare il massimo in campo, nonostante non fossi un grande giocatore».

Sta seguendo la stagione del Cagliari. Cosa pensa sia successo? Se Abeijón fosse ancora un calciatore, cosa darebbe in più?

«Stiamo passando un brutto momento, ancora non ci siamo salvati ma per me il Cagliari è una grandissima squadra. Quando giocavo io, il più grande calciatore era Gianfranco Zola ora invece ci sono giocatori importanti, di qualità e di esperienza. Il Cagliari del 2004, in Serie B, era una squadra di grandi nomi ma non bastava per vincere. Bisognava prima diventare una squadra vera, creare un rapporto forte e importante. Io ho pianto tanto quando sono andato via la prima volta, ai tempi del Como:era la mia casa, la mia vita. A Como non mi sentivo bene, volevo tornare a tutti i costi. Quando Ventura venne esonerato, mi dissero che avrei preso il minimo sindacale: non mi fregava niente dei soldi, ho preso un aereo e sono partito. E poi è arrivata di nuovo la Serie A, l’avevo promesso. Se fossi ora nel Cagliari, parlerei con il cuore ai miei compagni, gli racconterei quello che io imparato, la sofferenza dei tifosi. Si può giocare male, si può sbagliare ma devi correre più degli altri, devi lottare, devi dare coraggio e non mollare mai».

Tanti uruguaiani sono passati nel Cagliari. Avete una marcia in più?

«Prima di arrivare a Cagliari chiesi a Diego, a Fabian com’era l’ambiente. Più il tempo passava mi sono reso conto di quanto siamo amati. Ho capito che per noi è il posto giusto per il nostro sogno: giocare a calcio. Si va a Cagliari non per i soldi ma per amore, per legarsi per sempre alla squadra. Per me Cagliari è tutto, capisci questo tipo di rapporto, questo sentimento solo se lo vivi».

Chi è il giocatore del Cagliari più forte? Come vede i suoi connazionali Godin, Nandez e Pereiro?

«Il giocatore più forte del Cagliari è senza dubbio Nainggolan. Ovviamente non è più come un po’ di anni fa vista l’esperienza all’Inter. Ci somigliamo come carattere, lui il Ninja, io il Guerriero. La differenza è che lui è un giocare d’élite. Per quanto riguarda gli uruguaiani, Nandez mi somiglia tanto, quando ha preso la 18 mi ha fatto tanto piacere. Godin è il mio capitano uruguaiano, quando è andato a Cagliari dicendo che la sua è stata una scelta di vita, mi ha emozionato, un anno e mezzo fa era uno dei più forti difensori del mondo. Avrebbe potuto andare in una squadra più forte, mi ha fatto emozionare come tifoso, come sardo. Pereiro è un grande giocatore, non se ne vedono tanti così in giro. Sta dimostrando tanto, ha bisogno di tanta fiducia».

Le piacerebbe tornare a Cagliari come allenatore?

«Prenderei un aereo adesso stesso. Per me sarebbe un sogno lavorare per il Cagliari, in qualsiasi cosa. Io ho i miei figli, la mia mamma ma una cosa manca: il  Cagliari. So che il mio futuro sarà lì, so che diventerò l’allenatore più pazzo. Il Cagliari di oggi ha bisogno di gente che parli con il cuore, non con la testa».

Un messaggio al Cagliari.

«Dovete vincere! Giocatori, allenatori, presidente, intero popolo rossoblù: ricordate che in Uruguay c’è un tifoso che tifa con voi, soffre con voi, si arrabbia insieme a voi, gioisce insieme a voi, un tifoso che sarà per sempre con voi. Non posso entrare in campo ma sono lì. Qualsiasi cosa succeda, date il massimo in campo, i risultati arriveranno».

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